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di Daniele Fornai.

L’impiego di gomma da PFU in conglomerati bituminosi da sempre ha visto contrapporsi due principali scuole di pensiero: da un lato i sostenitori della tecnologia “wet”, dall’altro i fautori della tecnologia “dry”.La tecnologia wet prevede l’introduzione e la “digestione” del polverino di gomma nel bitume per ottenere un legante dalle migliorate caratteristiche reologiche; il processo dry prevede, invece, l’introduzione della gomma direttamente al mescolatore, insieme ad inerti, filler e bitume.

Le due tecnologie sono nate quasi contemporaneamente a metà degli anni ’60, l’Asphalt Rubber in USA ed il Plus Ride (dry) in Svezia ma hanno avuto destini assai diversi. La tecnologia “dry” nasceva, infatti, con l’intento di sostituire una quota rilevante di inerti con granuli di gomma: lo scopo era quello di ottenere una pavimentazione resiliente che potesse avere un effetto anti-ghiaccio (il film di ghiaccio doveva rompersi per flessione al passaggio dei mezzi). L’inserimento di granuli di gomma di granulometria superiore a 1,5 mm nella matrice tipica dei CB (in sostituzione volumetrica degli inerti di pari dimensioni) non garantiva tuttavia una lunga durata della pavimentazione. Il granulo di gomma rappresentava spesso un punto di discontinuità da cui si originavano le prime fessurazioni che rapidamente portavano al degrado della superficie.

Inoltre, l’interazione tra gomma e bitume, che prevede l’assorbimento delle frazioni oleose del legante all’interno della mescola di gomma, è un processo ben controllato nella tecnologia wet ma spesso imprevedibile nel processo dry.

La velocità con cui i due elementi interagiscono varia in funzione della granulometria della gomma, del tipo ed aromaticità del bitume, della temperatura, ecc.. Con così tante variabili difficili da controllare, non c’è da stupirsi se i tentativi fatti in passato per usare i granuli di gomma in modalità dry abbiano restituito risultati estremamente variabili (da ottimi a disastrosi) con il progressivo abbandono della tecnologia.

Dalle prime sperimentazioni ad oggi molto è cambiato: i sistemi di controllo degli impianti, la qualità del bitume (e il relativo prezzo!), gli additivi per asfalti, la composizione della gomma, ecc…

Forse è proprio grazie al costante processo di innovazione e sperimentazione che negli ultimi dieci anni hanno iniziato a presentarsi sul mercato un numero sempre maggiore di prodotti a base di gomma da PFU per la modifica dei conglomerati bituminosi con tecnica dry.

Alcuni prodotti seguono la “filosofia del caffè solubile” (versione rapida dei chicchi di caffè); la gomma da PFU è miscelata al bitume con il quale ha modo di interagire per un tempo sufficiente, quindi il mix viene raffreddato e convertito in pellets con l’aggiunta di quantità e tipi diversi di filler minerali (spesso calce). I pellets sono “pronti all’uso” e possono essere dosati all’impianto di produzione del CB con l’opportuna integrazione del bitume mancante.

Altri prodotti utilizzano invece altri additivi chimici per migliorare il controllo dell’interazione tra bitume e gomma (cere, oli, tensioattivi, ecc) ma sempre perseguendo l’obiettivo di fornire al produttore di asfalti gommati un prodotto di facile impiego e dai risultati costanti nel tempo.

Una terza categoria di nuovi processi dry prevede l’uso di polverino di gomma “fine”, ossia con granulometrie inferiori ai 600 micron per una migliore interazione con il bitume che è preventivamente modificato con SBS ed additivato specificamente per lavorare in modo sinergico con la gomma dei PFU.

Comun denominatore di tutte le tecnologie è la gomma da PFU e il maggior controllo dell’interazione chimico-fisica con il bitume.

Siamo testimoni di un importante percorso di innovazione che promette di valorizzare meglio i polimeri e gli additivi della gomma, per ottenere asfalti più durevoli, sostenibili e silenziosi.